Breve storia de «I bambini di Maria»

Breve storia de «I bambini di Maria»

Breve storia de «I bambini di Maria», raccontata da Maria Elisseva, fondatrice e direttrice del centro

Maria Eliseeva

Il primo incontro tra i bambini e Maria

Era il mese di settembre del 1993. Avevamo un sacco pieno di cioccolatini, che aveva portato la mia amica italiana Silvia, e un compito: quello di distribuirli a quei bambini che i cioccolatini li vedono raramente. Come prima cosa, provai a portarli all’orfanotrofio, andandoci senza alcun avviso, ma non mi fecero neppure entrare. Allora telefonai al RONO («Ufficio provinciale per l’istruzione nazionale»,l’attuale «Dipartimento dell’Istruzione») e raccontai loro dei cioccolatini degli italiani. Mi dissero: «C’è un istitutola cui direttrice ama molto gli stranieri!». Mi diedero l’indirizzo, telefonai e mi misi d’accordo con lei. Il posto risultò essere poco lontano, così ci avviammo. Io e alcuni italiani.

La porta era chiusa a chiave. Suonammo, ci aprirono e già sulla soglia ci dissero: «Sì, sì, ci hanno informati, dateci pure i cioccolatini, grazie mille!» Domandammo: «Possiamo vedere i bambini?». Ci fecero entrare molto malvolentieri. Buio totale, il corridoio era vuoto, non si sentivanonemmeno voci di bambini. Ci avvicinammo alla porta di una delle classi. La direttrice didattica che ci accompagnava prese dalla tasca la chiave - cosa che mi colpì molto - aprì la porta; dietro questa c’era la maestra, anche lei chiusa all’interno (evidentemente aveva la sua propria chiave) e i bambini. Erano seduti ai banchi, gli occhi fissi al televisore, le braccia conserte, come se fossero a lezione. Guardavano una soap-opera.

Era una visione straziante:i bambini dell’orfanotrofio in piedi, con il moccolo al naso, non curati, gli occhi affamati, cantavano una canzone sulla Patria.

Entrammo, ci scambiammo i saluti, la situazione era molto tesa, la maestra non capiva assolutamente cosa ci facessimo lì. Era una cosa insolita che degli estranei visitassero un orfanotrofio. «Cosa fate, oltre a guardare la televisione?» La maestra: «Sappiamo anche cantare e ballare. Presto bambini, in fila!» Dapprima Zhanna e Pasha danzarono per noi una polka e poi, disposti in fila, cantarono una canzone sulla Patria. Era una visione straziante: i bambini dell’orfanotrofio in piedi, con il moccolo al naso, non curati, gli occhi affamati, cantavano una canzone sulla Patria.

I cioccolatini, tra l’altro, potemmo distribuirli solo in parte, ma ce li presero comunque tutti. A questo punto la direttrice disse: «Bene, è tutto, la visita è terminata». Domandammo: «Possiamo visitare l’istituto? Per esempio, dove dormono e dove mangiano i bambini?» — «No, non vi mostreremo dove dormono, ora tutte le camere sono chiuse. Ma, va bene, la mensa potete vederla. Solo, i nostri bambini sono, dovete capire, malati e hanno rotto tutti i lampadari, quindi non meravigliatevene». E ci mostrò la mensa, lamentandosi che i bambini avevano rotto anche i mobili, che non c’era chi li potesse riparare e che sarebbe stato bello trovare uno sponsor per la riparazione. Su queste parole ci lasciammo. Ma poi cominciò una conversazione più informale. Gli italiani avevano con loro una macchina fotografica vera. Pasha la prese, capì immediatamente come usarla e cominciò a fotografare ogni cosa. E io avevo con me una bambina vera– mia figlia Anja, di dieci mesi – molto vivace, con gli occhi azzurri e i riccioli rossi. Ebbe un gran successo. I bambini guardavanole manine, le scarpine, senza avere il coraggio di toccare, e tempestavano di domande: Non è una bambola? I capelli sono veri? Perché non parla? Ma sa piangere? Se la tenevano in braccio a turno. All’improvviso mi resi conto che l’ultima volta che avevano visto un bambino così piccolo era stata quando essi stessi erano piccoli all’orfanotrofio. Pensai che avrei potuto di tanto in tanto venirci con Anja e con i due bambini più grandi. Semplicemente per giocare.

Continuazione. Ancora l’istituto.


Poco dopo telefonai ancora all’istituto. Il mio amico Patch Adamsstava per arrivare di nuovo in Russia con la sua squadra. I clown di solito venivano a Mosca per una settimana e facevano visita agli ospedali pediatrici. L’anno precedente l’avevo aiutato a preparare il programma e pensai che sarebbe stato bello portali lì.

Patch, che non capiva una sola parola di russo, continuava ad annuire e a dire: «I love you!»

La direttrice si dimostrò d’accordo e disse che i clown, certo, li avrebbero accolti con piacere, ma loro non avrebbero potuto intanto procurare i sanitari per l’istituto? Risposi in modo vago che, chissà, forse sarebbe stato possibile. Lei in seguito cercò di parlarne anche con loro. Mentre i clown giravano per l’istituto facendo divertire i bambini, lei fermò Patch e cominciò a spiegare che avevano bisogno dei sanitari e pure di una videocamera. Patch, chenon capiva una sola parola di russo, continuava ad annuire e a dire: «I love you!»

Durante la seconda visita i bambini mi riconobbero, nonostante il trucco, la parrucca e il costume. Sasha, Pasha, Zhanna si ricordarono di me, distinguendomi tra la folla dei clown, e questo mi fece piacere. Promisi che sarei ritornata. Senza gli stranieri risultò essere più difficile del previsto. Dovetti spiegare al direttore scolastico e alla direttrice didattica perché volevo tornare. Dissi che ero una pittrice e proposi di disegnare con i bambini. Furono molto sorpresi, ma mi fecero entrare.

Così, cominciai ad andare da loro regolarmente. La prima volta portai con me un grande dipinto su pannello che avevamo disegnato nel centro per bambini dove lavoravo allora. Proposi: «Disegniamo insieme un quadro». — «Uguale a questo?» — «No, non uguale, solo così grande, tutti insieme». — «Va bene, facciamo un disegno, ma proprio uguale a questo!» Non capii bene allora perché volessero farne una copia. Alla fine creammo una nuova versione di quel quadro «L’isola favolosa». Certo, si aggiunsero dei particolari e personaggi nuovi. Anche il colore era molto diverso, anche se la composizione era rimasta la stessa.

I bambini erano molto sorpresi che avessi portato i colori. Lì non erano permessi e ad ogni bambino venivano dati solo due pennarelli che potevano essere di colore nero e marrone.

Agli inservienti dell’istituto le cose con i colori non erano piaciute:i colori sporcavano, qualche volta avevamo versato dell’acqua e versare un barattolo d’acqua era un disastro! Anche se lì c’era il linoleum.

Ricordo un episodio. Lena Il’ina, una ragazza molto attiva, impulsiva, accidentalmente urtò con la mano, rovesciandolo, un barattolo con l’acqua. Il’ja si precipitò a prendere lo straccio e cercò di asciugare. La maestra glielo tolse gridando: «No, che lo faccia lei, che pulisca lei!Lei è fatta così! Ci mancherebbe! Deve farlo da sola!» Il’ja, in modo molto calmo ma sicuro, si riprese lo straccio e disse che avrebbe pulito da solo, perché non gli pesava affatto. La maestra ne fu estremamente stupita.

Il laboratorio teatrale «Lo scantinato»

Per circa cinque mesi seguimmo le nostre attività all'istituto e disegnammo un secondo grande quadro«Il Paese dei giocattoli». Poi Julia Sheveleva e Amir Taghiev del laboratorio teatrale «Lo scantinato» mi chiesero di fare lezione con i bambini del loro centro. Anche lì c’erano bambini con bisogni speciali. Così ci mettemmo d’accordo che sarei andata da loro successivamente con un gruppo di bambini dell’istituto. Trovare un accordo con l’istituto non fu semplice.

Gli insegnanti cominciarono subito ad usare le nostre visite al laboratorio come premio o punizione. Ne privavano i bambini, a volte tutti in gruppo, a volte singolarmente. Dall’istituto ci spostavamo in tram fino alla fermata del metrò «Semjonovskaya» e da qui continuavamo in metropolitana ma con dei cambi. Erano spostamenti difficoltosi. In uno di questi primi viaggi Pasha per poco non mi volava sulla strada, lo afferrai letteralmente per il collettoprima che finisse sotto le ruote. E un’altra volta Lena scese apposta alla fermata sbagliata del metrò e rimase indietro. Ben presto fu chiaro che da sola non avrei potuto farcela. E in quel momento fecero la loro comparsa gli amici, Il’ja e gli altri, che cominciarono ad aiutare ad accompagnare i bambini.

Ed io iniziai attivamente a cercare un mezzo di trasporto. Olga Alekseevna della fondazione benefica CAF mi diede un elenco di venti organizzazioni dove, supponeva, avrei potuto trovarne uno. Telefonai a tutte e una organizzazione rispose affermativamente. Era la «Casa di beneficenza di Mosca», che oggi si chiama «Centro di volontariato». Galina Bodrenkova ci assegnò una macchina e un autista. Per qualche tempo, una volta alla settimana, portammo così i bambini. E poi iniziò una nuova vita con l’interessante storia dello smarrimento di un portafoglio.

Una volta stavamo festeggiando il compleanno di Il’ja. L’atmosfera era allegra e tutto andava bene, quando all’improvviso Il’ja disse: «Ragazzi, ho perso il portafoglio, dentro c’era tutto il mio stipendio.». A parte i nostri ragazzi, non c’era nessuno che avrebbe potuto prenderlo. Era la prima volta che succedeva una cosa del genere ed eravamo confusi. A questo punto, Lesha, il nostro autista della «Casa di beneficenza», disse: «No, così non va bene, fermiamo per un attimo la festa, dobbiamo trovare il portafoglio. Facciamo così: entriamo uno alla volta in stanza buia. Poi usciamo. Chi ha preso il portafoglio, lo lascerà lì. Poi accendiamo la luce — il portafoglio sarà lì. D’accordo? D’accordo!» Andò così, il portafoglio con tutti i soldi fu ritrovato. Dopo questo fatto, Lesha cominciò a prendersi molto a cuore i bambini e tutta la situazione in generale, aveva capito che era possibile cambiare qualcosa nella loro vita. Un settimana dopo mi disse: «Mi sono messo d’accordo con i miei. Volevi portare i bambini più spesso al laboratorio. Andiamoci tre volte alla settimana». Mi stupii che fosse riuscito così facilmente. Dopo poco mi invitarono alla conferenza sul «Trasporto accessibile» per raccontare di come la «Casa di beneficenza di Mosca» ci stesse aiutando con i bambini. Mi si avvicinò una donna dall’aria simpatica e cominciò a ringraziarmi per suo figlio, dicendomi che era molto cambiato, era diventato più bravo, più serio da quando aveva cominciato a frequentare il laboratorio. Mentre ascoltavo, pensavo che si trattasse di uno dei genitori dei bambini a cui facevo lezione a «Lo Scantinato». Poi la conferenza ebbe inizio e fu aperta da questa stessa persona che si presentò come Galina Bodrenkova, presidente della «Casa di beneficenza di Mosca». Solo allora capii che l’autista Lesha era suo figlio.

Julia Sheveleva e Amir Taghiev del teatro-laboratorio «Lo Scantinato» mi chiesero di fare lezione con i bambini del lorolaboratorio

Il’ja ci comprò colori, pennelli e qualcosa di buono per la merenda con il tè: girelle, formaggio da spalmare e qualche volta anche del salame. Ma questo succedeva quando cominciavamo già a «permetterci dei lussi». Compravamo solo pane bianco. All’istituto il pane bianco era considerato una prelibatezza e ne davano in quantità limitata. All’inizio facevamo dei disegni, poi cominciammo a modellare la creta, arrivò la ceramista Lena Tatarintseva. Non facevamo ancora teatro. Julia, guardando i nostri bambini, aveva detto che erano molto chiusi, non avevano un temperamento artistico ed era ancora troppo presto.

Mikhail Losev: «I soldi non sono l’essenziale nella vita. Da tempo cerco qualcosa di simile, mi piace quello che fate.»

Arrivò il primo collaboratore: un uomo dall’aspetto simpatico, con la barba, che si presentò come Mikhail Losev. In mano, quasi come un biglietto d’ingresso, teneva una cartolina con la riproduzione dei nostri quadri. «Posso lavorare da voi?» Risposi: «Certamente, ma come potrò darle uno stipendio? Non ho assolutamente soldi».«I soldi non sono l’essenziale nella vita. Da tempo cerco qualcosa di simile, mi piace quello che fate.». Misha cominciò ad accompagnare i bambini dall’istituto al laboratorio, faceva dei lavoretti con i piccoli etrovava sempre qualcuno per aiutarci. Facemmo la conoscenza di sua moglie Julia e delle sue due bambine. Ben presto divenne chiaro che ci dovevamo registrare come organizzazione.

Perché lasciammo il laboratorio «Lo Scantinato»? Noi stessi capimmo ad un certo punto che eravamo diventati un impegno troppo grande per i nostri amici. Sebbene la storia del portafoglio avesse avuto un esito felice, gli episodi di questo genere non furono limitati a questa occasione. I nostri bambini erano cresciuti di numero. Quando Sasha Korostelin fu trasferito all’istituto N° 8, prendemmo anche un grande gruppo da questa struttura. Poi cominciarono a frequentare il laboratorio anche i bambini affetti da paralisi cerebrale infantile dell’istituto N° 20. Tre istituti significa circa 60 bambini. A cui si devono aggiungere amici e conoscenti, i figli dei nostri amici e gli amici dei nostri figli. Mi resi conto che dovevamo cercare una casa nostra.

L’appartamento a «Paveletskaya»

Vagando e peregrinando per vari posti, sembrava che avessimo trovato una soluzione. L’ultima goccia che fece traboccare il vaso fu la storia del centro dei bambini in Via Perechestenka. L’avevamo ristrutturatoe avevamo cominciato a portarci i bambini, ma non ci avevano dato la chiave. Ed ecco che uno dei giorni in cui dovevano venire i bambini ci ritrovammo, non per la prima volta, davanti alla porta chiusa. Misha Losev aveva portato i bambini dall’istituto e ce ne stavamo per strada ammassati nella mia piccola «Zhiguli» perché pioveva e la padrona di casa era andata fuori città senza avvisarci e portando con sé le chiavi. In quel momento chiamò Il’ja, io gli raccontai di come fossimo poveri e senza casa e lui disse: «Basta, non posso più vedervi penare così, bisogna fare qualcosa.».

E dopo il laboratorio a «Paveletskaja» non volemmo più dipendere o essere ospitati da qualcuno, capimmo che avevamo bisogno di una casa nostra.

E Il’ja decise di affittarci un appartamento! Era il periodo subito dopo il default del rublo quando si poteva affittare a prezzi bassi. Julia Loseva, cercando tra gli annunci, trovò un posto bellissimo. Era un appartamento di tre camere al piano terra di una casa non lontana dal metrò «Paveletskaya». Penso che proprio a partire da questo momento qualcosa cambiò perché avevamo una Vera Casa. E dopo il laboratorio a «Paveletskaya» non volemmo più dipendere o essere ospitati da qualcuno, capimmo che avevamo bisogno di una casa nostra.

Ben presto capitò che alcuni ragazzi si ritrovassero senza sapere dove andare a vivere. La nostra Nadia, terminato l’istituto, fu affidata al padre, ma la persona, che tale risultava secondo i documenti, non era assolutamente pronto a esserlo. Anche Sveta terminò l’istituto quell’anno, ma non poteva vivere con la madre, malata mentale. Più tardi fu la volta di Roma e Rusik, due ragazzi che avevano terminato gli studi in un orfanotrofio nei dintorni di Mosca e che avevano una camera in un appartamento in condivisione a quattro ore di strada da Mosca, ma che volevano studiare e lavorare a Mosca. Tutti si trasferirono a vivere a «Paveletskaya». Trovammo dei volontari americani disposti a vivere con i ragazzi e a dare un aiuto al centro! Julian, July, Lara e Melva. Ne venne fuori una piccola comune. Ricordo che la prima volta io stessa preparai una minestra con i ragazzi, molti non sapevano nemmeno cuocersi una pasta. Poi arrivò un altro ragazzo da «L’Arca», un vero cuoco diplomato, Iljusha Kubantsev.

Un giorno dipingemmo il nostro ingresso in modo incredibilmente bello, con fiori, arcobaleni e uccelli. Ma gli inquilini della nostra casa non apprezzarono la nostra iniziativa e ci fecero ridipingere tutto di grigio. Così finì la nostra prima esperienza di pittura murale.

A quel tempo al laboratorio lavorava Aleksandr Gorlov, tenente colonnello in pensione. Con lui e Misha Losev andammo alla prefettura, presentammo delle richieste e alla fine riuscimmo ad ottenere dal Comune il locale attualmente in uso dal nostro laboratorio – un piccolo seminterrato in Dmitrovskij Pereulok.

Brani da passate interviste. Il Centro a «Paveletskaya» nel 2000:

Sveta Khokhlova:Al nostro istituto venivano i clown americani. Li abbiamo conosciuti e siamo diventati amici. E Masha ha cominciato a farci spesso visita.

Nadja Varanksina: — Allora facevamo la terza. Masha veniva con Iljusha - non erano ancora sposati - e con degli amici. Facevamo dei disegni.

Poi hanno cominciato a portarci a casa loro il fine settimana. Hanno fatto dei bigliettini con i numeri e a seconda del numero che si pescava, si andava a casa di Masha o di Il’ja. Io la prima volta sono capitata a casa di Il’jusha. Mi ha insegnato a giocare a scacchi.

Sveta: — Io sono stata da Masha. Mi ha fatto conoscere i suoi bambini. A casa avevano molti giocattoli.

Sasha Demin: — Da Masha per la prima volta abbiamo festeggiato i compleanni. Con la torta. E ci regalavano i giocattoli. All’istituto non festeggiavamo il mio compleanno.

Nadja: — Una volta io, Pashka e Sasha siamo andati da Il’jusha. Lì ci siamo vestiti da clown e poi, così vestiti, abbiamo preso il taxi. Il’jusha ci faceva molto ridere. E’ un clown molto divertente.

Oksana Novikova: — Io e Zhanna andavamo più spesso di tutti. Aiutavamo Masha, guardavamo i bambini.

Nadja: — All’inizio facevamo le lezioni in istituto, nella nostra classe, poi abbiamo cominciato ad andare al laboratorio «Lo Scantinato». Prima in metrò, poi ci prenotavano un autobus.

Sasha: — Abbiamo fatto il primo quadro. «L’isola della felicità». L’abbiamo lasciata in classe come decorazione.

Nadja: — Le maestre ci minacciavano sempre: «Non andrai al laboratorio». Non mi piaceva per niente.

Sveta: — Siamo stati anche al matrimonio di Masha e di Il’jusha. Nella sala matrimoni. Avevamo messo i fuochi artificiali nella neve. Quando Masha e Il’jusha sono usciti, i ragazzi li hanno accesi. Tutti erano molto sorpresi che ci fossero così tanti bambini al matrimonio. Poi c’è stata la festa al centro. C’erano i genitori e gli amici di Masha. E’ stato un bellissimo matrimonio. E’ stata la prima volta in vita mia che ho visto un matrimonio. Masha era molto bella. Le hanno dato un sacco di regali!

Nadja: — Masha ha detto a me per prima che aspettava un bambino. Ma ha continuato a venire da noi per le lezioni.

Sveta: — Masha all’inizio avrebbe voluto un maschio. Ma non sapeva se sarebbe nato un maschio o una femmina. Poi ha saputo che era una femmina. Quando è nata Asja e noi l’abbiamo vista per la prima volta, Lena ha detto: «Masha, ma è un giocattolo?» Asja era così carina!

Oksana: — Ma quando è cresciuta è diventata disobbediente. Non voleva che le mettessimo i pannolini, mordeva.

Inna Agal’tsova: — Conosco Masha da tre anni. Quando sono venuti i clown, ho conosciuto Marina, di San Pietroburgo, le ho mostrato i miei disegni, in seguito ho conosciuto Masha e ho cominciato a frequentare il laboratorio. Ricordo che disegnavano su un tavolo da ping-pong. I bambini del centro di Maria mi piacevano, soprattutto Anja.

Sasha: — Quando vengono i clown andiamo con loro negli ospedali, dove ci sono le persone più gravi, malate di cancro.

Sveta: — Lì c’è anche un reparto per bambini uno per persone più grandi. I bambini piccoli a volte hanno paura dei clown e piangono, ma il più delle volte ridono. I medici dopo ci domandano: «Tornerete?» In metrò tutti ci guardavano, ridevano, ci chiedevano da dove venivamo. Siamo andati con i clown anche sulla Piazza Rossa. E anche lì abbiamo fatto ridere i bambini.

Oksana: — All’inizio mi vergognavo a far ridere le persone, ma adesso ho imparato.

Sveta: — Prima non volevamo che Masha prendesse ancora bambini da altri istituti. Ma Masha ha detto: bisogna. Quando sono arrivati i bambini dell’istituto N° 8 abbiamo fatto amicizia.

Nadja: — La nostra vita è cambiata, è molto cambiata. Siamo diventati delle persone diverse.

Ed ecco come eravamo nel 1998, mentre ci preparavamo all’incontro con i clown: